Sull’interpretazione dell’articolo 2135 c.c. anteriormente alla novella di cui al D.Lgs. n. 228/2001 Cassazione civile, sez. I, 24 marzo 2011, n. 6853
“A norma dell’articolo 2135 c.c. – nel testo, ratione temporis applicabile, anteriore alla novella di cui al D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 – è qualificabile come attività agricola quella diretta alla coltivazione del fondo e costituente forma di sfruttamento del fattore terra, sia pure con l’ausilio delle moderne tecnologie, nonché quella connessa a tale coltivazione, che si inserisca nel ciclo dell’economia agricola; ha, invece, carattere commerciale o industriale ed è, quindi, soggetta al fallimento, se esercitata sotto forma di impresa grande e media, quell’attività che, oltre ad essere idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponda a scopi commerciali o industriali e realizzi utilità del tutto indipendenti dall’impresa agricola o, comunque, prevalenti rispetto ad essa. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente e congruamente motivata la decisione della corte territoriale che aveva qualificato come commerciale, quindi, soggetta a fallimento, l’attività dell’associazione di cerealicoltori che, oltre a non svolgere in via diretta alcuna attività propriamente agricola, raccoglieva in modo sistematico, con personale ed ausiliari, i mezzi finanziari per i propri associati, anticipando ad essi i contributi pubblici e commercializzando in proprio partite di grano e concimi)”. (massima ufficiale)
Cassazione civile sez. I – 24/3/2011 n. 6853 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
- Dott. VITRONE Ugo - Presidente
- Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere
- Dott. RAGONESI Vittorio - rel. Consigliere
- Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere
- Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere - ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da: ASSOCIAZIONE REGIONALE CEREALICOLTORI - A.R.C.E., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TRIONFALE 5697, presso l'avvocato BATTISTA DOMENICO, rappresentata e difesa dall'avvocato GALASSO MERCURIO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
CURATELA DEL FALLIMENTO DELL'ASSOCIAZIONE REGIONALE CEREALICOLTORI - A.R.C.E., in persona del Curatore dott. C.A.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAPITINZANO 24, presso l'avvocato GIACOVAZZO GAETANO, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
contro
COMIT FACTORING S.P.A.; - intimata - avverso la sentenza n. 18/2005 della CORTE D'APPELLO di BARI, depositata il 21/01/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/02/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO RAGONESI; udito, per la ricorrente, l'Avvocato GALASSO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il tribunale di Bari, con sentenza del 28/4/99, dichiarò il fallimento dell'A.R.CE. (Associazione Regionale Cerealicoltori). Con atto notificato il 20/5/99, l'A.R.CE. propose opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento deducendo che il fallimento non poteva essere dichiarato sia perchè essa non aveva mai esercitato una attività commerciale in via esclusiva o prevalente rispetto a quella agricola o alle altre attività connesse a quella agricola costituenti l'oggetto sociale e sia perchè l'attività dell'associazione non aveva il requisito della professionalità. Si costituirono in giudizio sia la curatela che la creditrice istante Comit Factoring SpA deducendo la totale infondatezza della opposizione. Disattesa la richiesta di consulenza tecnica, con sentenza del 27/1/03, il Tribunale di Bari rigettò l'opposizione compensando le spese del giudizio. Avverso detta sentenza propose appello l'A.R.CE., con atto notificato il 17/10/03, col quale, assumendo di avere sempre svolto attività agricola e altre attività ad essa connesse e deducendo che il Tribunale aveva erroneamente escluso il concetto di attività agricola connessa prevista dall'art. 2135 c.c., comma 3, modificato dal D.Lgs. n. 228 del 2001, chiese che, in totale riforma della decisione di primo grado, venisse revocata la sentenza dichiarativa di fallimento del 28/4/1999 con ogni conseguenza di legge. La Corte d'Appello di Bari, con sentenza 18/1 -21/1/2005, rigettò il gravame compensando le spese del giudizio. Avverso la detta sentenza l'A.R.CE. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, cui resiste con controricorso la curatela del fallimento. DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'Associazione ricorrente contesta con il primo motivo di ricorso che la Corte d'appello abbia riconosciuto la sua natura commerciale anzichè agricola. Con il secondo motivo lamenta la mancanza di motivazione circa l'impossibilità di dichiarare il fallimento essendo trascorso oltre un anno dalla cessazione dell'attività. Con il terzo motivo si duole della mancata ammissione della richiesta CTU. Il primo motivo è infondato. La Corte d'appello ha con ampia ed esaustiva motivazione accertato che l'associazione svolgeva a tutti gli effetti una attività commerciale abituale e sistematica di tipo para bancario avvalendosi di personale e consulenti. La stessa infatti si era, tra l'altro, resa promotrice di una vasta gamma di iniziative finanziarie presso banche per anticipare ai soci i contributi AIMA, attività non prevista dallo Statuto, nonchè aveva sistematicamente richiesto ed ottenuto a proprio nome e non dei soci aperture di crediti presso diverse banche con esposizioni miliardarie, garantite da intere partite di grano conferite dagli associati, ed aveva, altresì, commercializzato in proprio per somme considerevoli ingenti partite di grano e concimi acquistandole e rivendendole. Sulla base di un siffatto accertamento la Corte d'appello ha ritenuto che l'attività descritta non potesse rientrare tra quelle previste come proprie per l'imprenditore agricolo dall'art. 2135 c.c., applicabile ratione temporis, e, cioè, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs n. 228 del 2001, perchè l'attività finanziaria svolta non poteva farsi rientrare neppure tra le attività connesse all'agricoltura di cui all'art. 2135 c.c., comma 2. Le censure che l'associazione ricorrente muove a tale motivazione e con le quali assume, tra l'altro, di avere svolto l'attività nell'esclusivo interesse dei soci, di non avere mai contratto mutui, di non essersi avvalsa di consulenti o di personale, di non avere mai avuto un patrimonio o un capitale, di non avere mai conseguito utili etc, tendono in realtà a fornire una diversa ricostruzione in fatto rispetto a quella effettuata dal giudice di merito e, come tali, non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente affermato che nel giudizio di cassazione, la deduzione del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5 non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito. (Cass. 7972/07). L'Associazione ricorrente si duole, inoltre, del fatto che la Corte d'appello abbia ritenuto che l'attività svolta non rientrasse tra quelle previste dall'art. 2135 c.c., comma 2, quando la stessa era stata interamente svolta a favore dei propri associati al fine di far conseguire ad essi i contributi AIMA e finanziamenti. Tale assunto è del tutto erroneo. Questa Corte ha ripetutamente precisato che nella nozione di impresa agricola, quale si desume dall'art. 2135 cod. civ., rientra l'esercizio dell'attività diretta alla coltivazione del fondo che sia svolta con la terra o sulla terra e purchè l'organizzazione aziendale ruoti attorno al "fattore terra", nonchè l'attività connessa a tale coltivazione, la quale si inserisca nel consueto e ben delimitato ciclo dell'economia agricola, ad integrazione della suddetta attività. Ha, invece, carattere commerciale o industriale ed è, quindi, soggetta al fallimento, se esercitata sotto forma d'impresa grande e media, quell'attività che, oltre ad essere idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponda, nel contempo, ad altri scopi commerciali o industriali e realizzi utilità del tutto indipendenti dall'impresa agricola o comunque prevalenti rispetto ad essa. (Cass. 150/66; Cass. 17251/02; Cass. 10527/98) sicchè, occorre attribuire rilevanza alla finalità od utilità prevalente di siffatta attività, per stabilire se essa debba o meno qualificarsi connessa, complementare o accessoria alla coltivazione della terra, (Cass. 3010/78; Cass. 1946/80). In altri termini, è qualificabile come attività agricola essenziale quella che costituisce forma di sfruttamento del fattore terra, sia pure con l'ausilio delle moderne tecnologie, mentre diventa attività commerciale quando questo collegamento viene meno del tutto. (Cass. 10527/98). Nel caso specie, non è dubbio - come correttamente rilevato dalla Corte d'appello - che l'attività svolta dall'ARCE non avesse alcun collegamento con lo sfruttamento del fattore terra, poichè l'associazione in questione non svolgeva direttamente alcuna attività agricola, ma si preoccupava della raccolta di mezzi finanziari per i propri associati, senza che tale attività comportasse un coinvolgimento diretto nell'attività del fondo. Se così non fosse qualunque banca che finanziasse in via esclusiva imprenditori agricoli potrebbe considerarsi svolgente attività agricola e lo stesso dovrebbe dirsi i produttori ed i fornitori di prodotti per l'agricoltura i quali potrebbero considerarsi imprenditori agricoli poichè la loro attività è comunque in qualche modo connessa con quella agricola. Il motivo va dunque respinto. Quanto al secondo motivo di ricorso, si osserva che lo stesso è prospettato sotto il profilo della omessa motivazione per violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5. Premesso che nella sentenza impugnata non si rinviene traccia della questione relativa al decorso dell'anno dalla cessazione dell'attività ai fini della dichiarazione di fallimento, spettava alla associazione ricorrente, in osservanza del principio di autosufficienza del ricorso, indicare di avere proposto la questione con i motivi di appello riportandone testualmente nel ricorso i brani rilevanti. (v. Cass. 15952/07). Nulla di tutto ciè è avvenuto onde il motivo è inammissibile. Venendo all'esame del terzo motivo, si rileva che la Corte d'appello ha rigettato l'istanza di disporre consulenza tecnica d'ufficio rilevando che gli elementi probatori acquisiti in giudizio ne rendevano superfluo l'espletamento. Sul punto è ben noto l'orientamento ripetutamente espresso da questa Corte secondo cui la decisione del giudice di merito che esclude l'ammissione della CTU, trattandosi di una valutazione discrezionale, non è sindacabile in sede di legittimità, neanche per difetto di motivazione, posto che compete al giudice del merito l'apprezzamento delle circostanze che consentano di escludere che il relativo espletamento possa condurre ai risultati perseguiti dalla parte istante, sulla quale incombe l'onere di offrire gli elementi di valutazione, posto che la CTU non può essere intesa come un mezzo che esoneri la parte dall'onere della prova dei fatti posti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio (Cass. 26264/05; Cass. 10063/98). Il motivo, peraltro del tutto generico, è dunque inammissibile. Il ricorso va in conclusione respinto. L'Associazione ricorrente va di conseguenza condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 4000,00 per onorari oltre Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali e accessori di legge. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2011. Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2011